Samuele BIANCHI, Paola BINANTE, Alfredo COVINO, Pietro D’AGOSTINO e Orith YOUDOVICH si sono mossi all’interno di un ampio territorio guidati in special modo dall’intuizione, dall’anarchia dello sguardo, dalla sensibilità interiore individuale, dall’eros irrazionale della percezione, da una libertà espressiva più filosofica che ideologica e hanno abolito la distanza tra artista e paesaggio, divenendo loro stessi elementi degli spazi che attraversavano. La loro presenza nelle immagini, però, si è manifestata non con la loro apparizione corporea nell’inquadratura quanto piuttosto con l’attivazione di un “modo del vedere” che ha prodotto immagini del tutto (fortunatamente) soggettive. E in tal senso, hanno colto in pieno quanto affermato nel suo libro Il paesaggio – Una storia tra architettura e natura (Einaudi, 2005) da Maurizio Vitta: “Il paesaggio deve essere declinato al plurale, presentandolo come un ventaglio di possibilità, una gamma di sfumature infinite”.

Da Monzuno a Marzabotto, da Loiano a Monghidoro, da Rioveggio a Brento, fino a Sasso Marconi si è così costruito un percorso visivo che ha fatto emergere quella che James Hillman avrebbe potuto definire “l’anima dei luoghi”. Anche le zone più tipicamente naturalistiche comprese tra il Monte Sole, il Monte Venere e il Monte Adone sono divenute aree dell’immaginazione estetica più che territori di rappresentazione della bellezza, autentici spazi dell’ignoto, dunque fortemente poetici.

Nell’opera di Orith YOUDOVICH si ravvisa la caratteristica nomadica del suo sguardo e la sua particolare sensibilità nell’entrare in empatia con luoghi caratterizzati da un profondo e perturbante senso di straniamento. Per tale motivo, le caratteristiche compositive delle sue visioni urbane si miscelano perfettamente alle inquadrature naturalistiche e ciò permette di edificare un’architettura formale di totale, alta, rarefazione, quasi tendente all’astrazione.

(Dal testo critico di Maurizio G. De Bonis, curatore del progetto La via che non c’è)