Il lavoro fotografico di Orith Youdovich è basato su alcune precise coordinate teoriche ed espressive che determinano una griglia visuale capace di generare nel fruitore una condizione di stranianemto rispetto al concetto di raffigurazione del reale.
Ciò che guida lo sguardo di Orith Youdovich è il nesso estetico, inteso come legame esistente tra percezione sensibile e sfera interiore e non come volontà di esprimere il bello, tra urgenza creativa del fotografo e capacità di entrare in comunicazione con il mondo.

Per tale motivo, le inquadrature della fotografa israeliana comunicano sempre dei sottotesti che dirottano il pensiero di chi guarda verso orizzonti che nulla hanno a che fare con la banale raffigurazione della realtà. Questo meccanismo rappresenta il cuore della poetica di Orith Youdovich, la quale opera nella fotografia in senso strettamente filosofico, articolando il linguaggio visivo in modo diretto ma non convenzionale.

La sua visione del mondo non scaturisce dal gesto meccanico dello scatto, né dal guardare l’esistenza fermandosi alla superficie, ma dalla riflessione sulla natura più segreta del vedere, mai considerata come semplice attività in grado di replicare la realtà. In tal senso, le immagini di Orith Youdovich sono fortemente allusive, sono cioè metafore visuali di un percorso introspettivo che partendo dall’apparentemente banale raffigurazione del mondo arrivano a sviscerare, sotto forma paesaggistica, l’interconnessione tra l’autrice e l’indecifrabilità dell’esistenza. Il nucleo della poetica di Orith Youdovich non è però solo attraversato da riflessioni concettuali autoreferenziali. Le sue opere esprimono anche un vissuto che emerge attraverso i segni della realtà circostante e che riguarda problematiche individuali che sono, di fatto, anche questioni collettive.

I paesaggi urbani, gli spazi indistinti dove tutto potrebbe accadere, la composta presenza della natura, i segni della presenza/assenza umana delineano un’idea della fotografia come procedimento di analisi dell’impossibilità di decifrare in maniera definitiva il senso dell’esistenza e del sostanziale smarrimento degli esseri umani nell’ambito del loro percorso esistenziale, smarrimento provocato dalla malattia, dalla solitudine, dalla sofferenza. Gli ambienti che caratterizzano la vita quotidiana sono inoltre contenitori di un enigma che inducono l’autrice a interrogarsi anche sulla propria esperienza artistica.

Le opere di Orith Youdovich non esprimono certezze, ma aprono ampi squarci nel complesso sistema di censura generato dalle sovrastrutture culturali e dalle convenzioni umane, anche in campo artistico. Per questo motivo il suo lavoro può essere considerato come un procedimento di sovversione, teso non solo a smentire lo stereotipo del fotografo costruttore/duplicatore di realtà ma anche a scardinare i meccanismi borghesi di fruizione dell’opera d’arte. Chi guarda una sua fotografia, in sostanza, può (ri)costruisce il proprio mondo, riconoscere i proprio dolori, grazie a un processo di democratizzazione nell’ambito del quale cui autore e osservatore entrano in stretta e profonda correlazione.

© m.g.d.b., 2009
(dal catalogo della mostra Mondi mediterranei, Complesso del Vittoriano, Roma, dal 15 luglio al 5 settembre 2009)