Luoghi, nelle fotografie di Orith Youdovich. Ma sono un pretesto: stanno sulla carta per fare da sponda a rappresentazioni altre, distanti, non convenzionali e drammaticamente invisibili. «Così era questo posto quando mi ci sono trovata davanti – ci informa l’autrice – e così ero io quando lui si è trovato davanti a me». Ma i modi in cui erano i due nel preciso istante dell’incontro sono solo l’inizio. L’aspetto vedibile di qualsiasi elemento non ha valore cogente che entro i limiti dell’attimo: strettissimi nello scorrere dell’esistenza, eppure dilatati nella fissità di un fotogramma. Sebbene prodigiosa, tuttavia, l’espansione del momento concessa dalla fotografia non basta mai a sciogliere il dilemma sull’addomesticabilità del tempo: il sollievo avvertito dall’osservatore è ogni volta pericolosamente simile e prossimo al brivido di una vertigine: la medesima che si proverebbe in una stanza con due specchi su pareti contrapposte.

La scelta, nel processo creativo di Youdovich, sembra muovere da una sorta di fluida inconsapevolezza: la relazione col soggetto è paritaria. Lo sdoppiamento iniziale significa trovarsi a vicenda senza essersi cercati. Lei non esegue serie di vedute programmandone a priori il dove e il perché, né cataloga i risultati ottenuti associando alle immagini titoli o didascalie. Intuisce, piuttosto: si lascia folgorare dall’imprevisto anonimato di strade periferiche, dalla vaghezza di spiagge deserte, dal quasi nulla di spazi dimenticati o semplicemente ignorati. E quando la pulsione dell’invaghimento sensoriale la sospinge al culmine di un reciproco guardarsi, passa all’azione. Non scattare fino a che la scena sia al sicuro dall’insidia di trite sovrastrutture di maniera è la norma chiave di una disciplina d’autocontrollo che entra in gioco e difficilmente la abbandona. Le invisibili rappresentazioni suscitate dalle campiture perlopiù monocrome sono allora ipotesi elaborate dal subconscio circa mutazioni della forma in ciascuno degli istanti che da quell’unico preferito si dipanano, all’indietro o in avanti. L’esteriorità atteggiata a concetto è energia visionaria che salva da ogni sterile presunzione di coerenza. Nessun luogo e nessuno stato d’animo sono uguali a loro stessi: solamente, nel tempo, può capitare che gli uni incrocino gli altri, come per inattesa rivelazione di un’affinità elettiva. Su questo Orith Youdovich riaccende il nostro pensare; e lo fa da artista autentica e sottilissima: parlando di se stessa, ma a nome di chiunque.

© Carlo Gallerati – Dicembre 2010
Catalogo della mostra 06. FUORI 4, pp. 42-43