Prendo spunto da un saggio recentemente pubblicato (Postcart Edizioni, collana Postwords, 2012), dal titolo – Cosa devo guardare – Riflessioni critiche e fotografiche sui paesaggi di Michelangelo Antonioni. Si tratta di opera teorico-filosofica di Maurizio G. De Bonis e Orith Youdovich nella quale, pur rimanendo centrale l’analisi, la critica e i rapporti diretti e indiretti con il cinema di Michelangelo Antonioni, i concetti espressi si alimentano all’internodi un confronto dialettico e di un voluto (continuo) rapporto di scambio e di sintesi tra la scrittura analitica ed emozionale di De Bonis e la fotografia embrionale, sorgiva di Orith Youdovich che ne esprime concretamente e visualmente i contenuti.

“La mappa non è il territorio”, concetto filosofico e strutturale di studio sulla comunicazione del filosofo Alfred Korzybski, a cui aggiungo anche, con modestia, che il territorio non fa immagine di sé. È ormai innegabile che la nostra proiezione mentale, evoluzione della nostra cultura, determina sia le forme che il senso del guardare e non solo. Emerge così una crisi evidente, irreversibile del nostro sguardo fatto di immagini che tutto spiegano, pertanto tutto tacciono, e che non avvertiamo più come compendio dello spazio che abbiamo a disposizione. Questo processo avviene non solo nell’ambito così detto delle arti ma anche in contesti politici, sociali, economici investendo interamente la nostre attività. Ed è cosa che stiamo sperimentando oggi, qui, noi tutti, nel nostro mondo quotidiano.
Vale ancora la pena nasconderci dietro concetti e meccanismi desueti e infernali, individuali e di massa, per autotutelarci dai nostri stessi fallimenti? E di cui, chiaramente, riconosciamo colpevole un qualcosa d’altro e non noi stessi, sbadati consumatori dell’inevitabile. E’ proprio in questi momenti di crisi profonda che necessitano altri possibili sguardi, altre possibili strade da percorrere, e per nostra natura e struttura in primis mentali, immaginali. Proprio immaginali, nel senso di poter immaginare, desiderare e generare un mondo perlomeno diverso dall’attuale, in base alle aspettative future, in concomitanza con le esperienze passate da cui trarne esempio.

Provo a proporre una mia tensione, un desiderio, certamente soggettivo, comunque a mio avviso praticabile: la necessità di stare “dentro” il paesaggio, dentro ciò che mi circonda, per cui partecipe e non solo spettatore. Dentro per indagare se io, me, il mio essere è della stessa natura di ciò che sto guardando e pertanto consapevole di non farmi del male essendo io stesso natura del mio sguardo. Una necessità che si fa territorio di indagine, con un uso del dispositivo fotografico che in questo senso, con questa aspettativa, potrebbe essere una congettura, un’ipotesi a far sì che ciò avvenga, per il fatto che lo strumento mi avvicina, con il suo distacco disinteressato e approfittando del suo intrinseco inconscio tecnologico, ad una percezione unitaria del tutto, non separata dall’Io della mia mente.
E questo in un dialogo, magari intuendo soluzioni e sintesi ibride con altre modalità espressive, come ci viene dimostrato nel saggio da De Bonis e Youdovich. Può manifestarsi una possibile esperienza maturata all’interno del dispositivo fotografico, in relazione alle “sue” qualità e al di là delle nostre aspettative? Possiamo osservare ed essere osservati attraverso la fotografia con uno sguardo non riferibile al nostro? O unicamente rivolgere lo sguardo come un cane da riporto che va e ritorna con le certezze che il cacciatore ha osservato e colpito a distanza?

© Pietro D’Agostino / CultFrame Arti Visive