OSCURITA’. Orith Youdovich, l’atemporalità, giusto il tempo della fruizione
di Noemi Morelli / art a part of cult(ure)
C’è qualcosa di totalmente, meravigliosamente assente nelle fotografie di Orith Youdovich, dal 12 aprile al 30 maggio in mostra alla Galleria Gallerati di Roma. Il paesaggio senza figura umana è più che altro un pensiero. E’ la solitudine di qualcuno che guarda la bellezza di un bosco, la sconfinatezza di un deserto, la maestosità delle rovine, ma non riscontra nessun elemento di vita con il quale cominciare un dialogo. E’ solo con se stesso. E’ pura contemplazione. L’assenza che è malinconico desiderio di presenza.
Così si presentano gli scatti di Youdovich, artista israeliana dagli occhi vivaci dietro gli occhiali. E’ appena tornata da un incontro all’Accademia di Belle Arti, dove gli studenti hanno avuto modo di conoscere la sua poetica, ed è attorniata dalle domande dei numerosi venuti al vernissage della sua mostra.
Un pensiero dunque, una meditazione solitaria: l’uso della vasta gamma di grigi che non arriva mai al nero puro pare confermare questa ipotesi. La stessa nebbia che potremmo trovare aprendo a metà la testa del pensatore di Rodin, la stessa nebbia di qualcuno che sta cercando qualcosa, una mancanza puramente interiore e non esplicabile.
Incomunicabilità? Non a caso il lavoro della fotografa è stato più volte paragonato a quello del grande cineasta Michelangelo Antonioni, al quale lei stessa ha guardato nella serie Dialogo con Michelangelo Antonioni, da cui uno splendido libro edito da Postcart. Paesaggi che sarebbero potuti essere negli occhi di Monica Vitti dunque, ma dove sono state scattate queste fotografie?
Spiega Orith:
“In Israele. In realtà per l’osservatore sapere la dislocazione geografica non è fondamentale, al fine di appropriarsi della percezione, ma la verità è che io, personalmente riesco a fotografare solo nei paesi che sento più miei, ovvero la mia natia Istraele e in Italia. Ecco, se ad esempio avessi cercato qualcosa di simile in Francia, sono sicura che il risultato non sarebbe stato lo stesso”
Come Pasolini che per L’Edipo Re e la Medea ha preferito ricercare locations in Marocco, Turchia e in Siria, piuttosto che nella Grecia a cui il mito si riferisce, con quest’idea del richiamo al Primigenio del mondo, così Orith Youdovich, chiamando in causa qualcos’altro in cui Google Maps o Google Earth non devono assolutamente intromettersi, disloca la sua narrazione-non narrazione in un altrove. Badate: altrove, che non è un “qualsiasi”.
“Sono però felice di sentire che mi è stato chiesto dove sono state scattare le fotografie, ma non la storia delle rovine che sono il soggetto stesso della fotografia.”
Segno evidente che la poetica personale, l’atmosfera straniante che fa da filtro tra l’obiettivo e il soggetto è talmente forte da diventare protagonista. C’è molta terra e poco cielo nelle immagini di Orith, per impedire che qualcuno, per dirla alla De Andrè “ci costringa a sognare in un giardino incantato”. La trascendenza non è da trovarsi dunque in cieli nuvolosi, pare instradarci l’artista, ma nella psicologia dell’osservatore che si rivolge alla terra madre.
La curatrice Chiara Micol Schiona nel proporre una lettura di questa esposizione parla di luogo, frammento e memoria, di un bianco e nero “concetti da decifrare e codificare” e di frammenti “celati e, taciuti, tracce inquietanti, come le rovine” impregnate dell’anima del luogo di James Hillman.
Oltre alle fotografie è stato deciso di inserire un video “non montato, non ritoccato in nessun modo” ci tiene a spiegare Youdovich, che è nient’altro che la registrazione del suo percorso in automobile nel deserto israeliano.“Quello che pensiamo guardando fuori dal finestrino”, sarebbe potuto essere il sottotitolo, perfettamente in linea con l’universo interiore presente nei suoi scatti, per quanto questo filmato sia decisamente più spontaneo (ma non meno efficace).
Dunque nel frastuono dell’arte contemporanea e della fotografia che si vuole fare sempre più spettacolare, ecco una mostra che riporta alla quiete della contemplazione e alla meditazione esistenziale. Per calarsi nell’atemporalità, giusto il tempo della fruizione.
© Naima Morelli / art a part of cult(ure)