Come scrive Sandro BERNARDI nella sua Prefazione a Cosa devo guardare. Riflessioni critiche e fotografiche sui paesaggi di Michelangelo Antonioni, «Molte fotografie di Orith Youdovich sono ispirate alle inquadrature vuote, misteriose di Michelangelo ANTONIONI».
Nel 2010, a Roma, viene allestita una mostra della fotografa israeliana dal titolo Come devo vivere. Dialoghi visivi con il cinema di Michelangelo Antonioni, e nel volumetto edito da Postcart trovano spazio una selezione di questi scatti capaci di porsi in un proficuo dialogo con l’orizzonte rappresentativo antonioniano (in alcuni casi, Youdovich ha ritrovato i luoghi stessi dei tournage di del regista, come la casa de Il grido, «confrontando mito e realtà», sempre per usare le parole di Bernardi). A costituire la parte più cospicua della pubblicazione un testo, suddiviso in cinque capitoli, in cui Maurizio G. De Bonis, critico e curatore di mostre, si interroga su questo dialogo, mettendone in rilievo taluni aspetti, evidenziando i punti di contatto tra i due sguardi. La componente di maggiore vicinanza tra la fotografa e il regista è di certo il ruolo dell’assenza della figura umana nel paesaggio rappresentato, mai neutro e costantemente, “attivo” sempre in grado di comunicare all’osservatore e di mettere in questione il suo stesso senso. Un paesaggio senza azione, sospeso. Il testo teorico di riferimento cui De Bonis si rifà è dichiarato sin dalle righe iniziali del primo capitolo: si tratta de Il paesaggio nel cinema italiano di Bernardi. Sulla sua scorta (ma anche appoggiandosi a diverse opere di carattere più generale sulla questione), De Bonis approfondisce la questione nel cinema di Antonioni attraverso l’analisi di alcuni film e l’individuazione di diversi luoghi e nodi come il deserto, l’orizzonte della periferia urbana, il parco cittadino che Orith YOUDOVICH riprenderà e svilupperà in numerose sue istantanee. Ma non solo Antonioni, verrebbe da dire: infatti De Bonis non dimentica importanti (e per certi versi “obbligati”) riferimenti alla fotografia di paesaggio (BROTHERUS, EGGLESTON, SHORE, STERNFELD) e a quello che potremmo definire un cinema dalla vocazione “paesaggistica” consapevole e profonda (TARKOSKIJ, WENDERS). Tuttavia, su quest’ultimo punto ci permettiamo di avanzare alcune perplessità. Concentrandosi quasi esclusivamente sulla filmografia antonioniana (indiscutibilmente la più significativa in assoluto per quel che concerne la questione del paesaggio), De Bonis lascia ben poco spazio agli altri cineasti, tanto che alcune letture in senso paesaggistico ci paiono forzate: si veda quanto viene scritto a proposito di ALTRMAN, LYNCH e VAN SANT, figure che a nostro parere appaiono ben poco attente alla questione.
Ci concediamo un’ulteriore osservazione. Probabilmente poiché rivolto ad un pubblico non esattamente di adepti cinefili, l’autore rimanda continuamente a note a fondo capitolo in cui dà luogo a piccoli elenchi bio-filmografici di attori e registi: un procedimento che seppure non appesantisca la lettura (una volta colta la natura delle esplicazioni di tali note il lettore le potrà eventualmente saltare), di certo non rappresenta a nostro parere un modello di trattazione efficace. Inoltre, perché ricorrere, come nel caso del riferimento al film di WONG KAR WAI In the Mood for Love, all’espressione “capolavoro” che, notoriamente, se non adeguatamente esplicitata, non significa assolutamente nulla?

Uno degli importanti meriti della pubblicazione è certamente la volontà di riattivare un percorso di dialogo tra cinema e fotografia, invitando il lettore e studioso a lavorare ancora su un cinema centrale per la messa in questione di uno dei nodi essenziali del nostro tempo: il problema della visione, da sempre protagonista essenziale dei film di Antonioni, cineasta ormai considerato come superato dai tanti vati post-modernisti degli effetti violenti e conformisticamente scioccanti. Antonioni, un cineasta ieri come oggi di grande attualità perché autore di un cinema capace di interrogarsi sempre e prima di tutto sul senso e sulla funzione dello sguardo. Perché, come scrive Bernardi al termine della sua Prefazione, «forse quando uno ha imparato a guardare, ha anche imparato a vivere».

© Claudio Di Minno / Crepuscoli Dottorali