La sequenza iniziale del film di Arnaud e Jean-Pierre Larrieu intitolato Peindre ou faire l’amour (Incontri d’amore, 2005) è ambientata in un’area di campagna dalle linee morbide e ordinate. Una pittrice dilettante passa le ore libere dal lavoro in questo luogo. Guarda e tratteggia delle vedute, si relaziona al panorama circostante da un punto di vista preciso che sancisce la separazione tra corpo dell’artista e proiezione del suo sguardo, fattore che crea l’idea di paesaggio. Durante uno di questi tranquilli pomeriggi irromperà sulla scena un altro soggetto: il sindaco non vedente di un vicino villaggio che fa la sua passeggiata quotidiana. Quest’ultimo diviene all’improvviso soggetto dinamico che sconvolge la dimensione compositiva dello sguardo della pittrice che, tra l’altro, si troverà a dover interagire direttamente con il “nuovo elemento” della sua visione. A un certo punto, l’imprevedibile fattore intervenuto involontariamente a colmare la distanza tra corpo-sguardo femminile e paesaggio, il sindaco del paese appunto, proporrà alla pittrice di accompagnarlo a una casa vicina facendo da guida. Appena i due inizieranno a camminare, il personaggio maschile pronuncerà una frase significativa: “…ci muoveremo all’interno del suo quadro”.

Quest’ultima affermazione è, di fatto, l’esplicita manifestazione da parte di Arnaud e Jean-Pierre Larrieu della base teorica sulla quale si basa non solo la sequenza appena descritta ma l’intero film che successivamente si svilupperà all’interno di un meccanismo di relazione erotica che colmerà la distanza tra ciò che i personaggi centrali stanno facendo e ciò che hanno sempre immaginato di fare. Dunque, il pensiero (intimo) diverrà sostanza delle loro azioni e non solo proiezione di un desiderio e di una sensazione percettiva.

Tale elemento teorico appena sviscerato grazie a un esempio di tipo cinematografico, ci permette di delineare in modo preciso le modalità creative che gli autori del progetto La via che non c’è hanno adottato per portare a termine il loro lavoro. Queste modalità si sono sviluppate non in modo razionale, non sono state studiate a tavolino, e in tal senso non si è adottato un modello progettuale di tipo banalmente fotografico.

Samuele Bianchi, Paola Binante, Alfredo Covino, Pietro D’Agostino e Orith Youdovich si sono mossi all’interno di un ampio territorio guidati in special modo dall’intuizione, dall’anarchia dello sguardo, dalla sensibilità interiore individuale, dall’eros irrazionale della percezione, da una libertà espressiva più filosofica che ideologica e hanno abolito la distanza tra artista e paesaggio, divenendo loro stessi elementi degli spazi che attraversavano. La loro presenza nelle immagini, però, si è manifestata non con la loro apparizione corporea nell’inquadratura quanto piuttosto con l’attivazione di un “modo del vedere” che ha prodotto immagini del tutto (fortunatamente) soggettive. E in tal senso, hanno colto in pieno quanto affermato nel suo libro Il paesaggio – Una storia tra architettura e natura (Einaudi, 2005) da Maurizio Vitta: “Il paesaggio deve essere declinato al plurale, presentandolo come un ventaglio di possibilità, una gamma di sfumature infinite”.

La declinazione al plurale del paesaggio ha evitato il pericolo della documentazione, della semplice clonazione del reale, dell’ubriacatura vacua del messaggio, dell’uniformità stilistica, del conformismo compositivo, e ha invece consentito di produrre testimonianze plurime di una realtà territoriale che nasconde al suo interno innumerevoli misteri e incredibili aperture verso l’indecifrabile. Questo meccanismo ha, quindi, prodotto una geografia estetica di rara libertà che si manifesta come un armonioso mosaico di visioni, una danza percettiva che pur sviluppata singolarmente si conclude in un movimento coreografico-visuale di tipo collettivo. Lasciati liberi di agire al di fuori della gabbia della documentazione fotografica, gli autori de La via che non c’è hanno, in sostanza, rintracciato un sentimento comune che si è palesato autonomamente solo alla fine del lavoro svolto.

Da Monzuno a Marzabotto, da Loiano a Monghidoro, da Rioveggio a Brento, fino a Sasso Marconi si è così costruito un percorso visivo che ha fatto emergere quella che James Hillman avrebbe potuto definire “l’anima dei luoghi”. Anche le zone più tipicamente naturalistiche comprese tra il Monte Sole, il Monte Venere e il Monte Adone sono divenute aree dell’immaginazione estetica più che territori di rappresentazione della bellezza, autentici spazi dell’ignoto, dunque fortemente poetici.

Nelle immagini di Samuele BIANCHI l’enigma hegeliano prodotto dall’inspiegabile estetica della natura si è sposato con il concetto di “piega”, con l’idea che lo sguardo possa produrre metafore dell’esperienza percettiva del fotografo in grado di parlarci dei luoghi tramite ciò che non si vede piuttosto che tramite ciò che si vede. Nelle inquadrature di Bianchi tale attenzione a ciò che è occultato ha determinato un’inquietudine compositiva che raffigura pienamente la condizione creativa e intellettuale dell’autore in questione, sempre in bilico tra ricerca della forma e casualità del punto di vista. In contrapposizione dialettica alle incognite scaturite dal vagabondaggio di Bianchi, possiamo porre le visioni apparentemente aperte e lucide di Alfredo COVINO, che solo superficialmente può essere considerato un fotografo documentarista. Gli scatti di Covino sembrano concentrati sulla raffigurazione dei segni della Storia e sulla dimensione della descrizione del luogo, in realtà si riesce sempre a cogliere una condizione di sospensione di senso che sfocia con intelligenza nella percezione delle incongruenze degli elementi del paesaggio, e tali incongruenze finiscono per cogliere degli echi evocativi e generare visioni imprevedibilmente surreali.

Un altro genere di contrapposizione creativa dialogante è quella vede sottilmente correlarsi le opere di Paola BINANTE e quelle di Pietro D’AGOSTINO. La prima sembra esprimersi all’interno di un’architettura compositiva caratterizzata da equilibrio formale e da pseudo-oggettività ma a un’analisi non superficiale delle sue inquadrature si attiva una condizione dello sguardo che fa emergere con chiarezza la sensazione di stupor mundi dell’artista che “parla visualmente” del suo rapporto con la realtà senza essere descrittiva. Anzi, le sue opere negano il concetto di descrizione per comunicare una sensibilità di raffigurazione collegata più a un tratto pittorico (quindi immaginifico) che freddamente fotografico. D’Agostino, invece, presenta opere (che assumono il valore di pseudo-soggettive) convulse e ingabbiate in un formato quadrato che origina una sensazione quasi di oppressione. In verità, l’autore lavora sul piano concettuale tra ciò che è in campo e ciò che è fuori campo, tra che si vede e ciò che è nascosto. In tal senso, opera in assoluta libertà e manifesta il suo muoversi nello spazio naturalistico in modo quasi animalesco, selvaggio, metodo creativo anarchico-adrenalinico che entra in totale sintonia con il mondo rappresentato e con un concetto di natura lontano da impostazioni estetizzanti e razionalistiche.

Nell’opera di Orith YOUDOVICH si ravvisa, invece, la caratteristica nomadica del suo sguardo e la sua particolare sensibilità nell’entrare in empatia con luoghi caratterizzati da un profondo e perturbante senso di straniamento. Per tale motivo, le caratteristiche compositive delle sue visioni urbane si miscelano perfettamente alle inquadrature naturalistiche e ciò permette di edificare un’architettura formale di totale, alta, rarefazione, quasi tendente all’astrazione. Le sue immagini, in definitiva, possiedono un sapore cinematografico e oscillano tra la drammatica, quanto misurata, percezione del vuoto esistenziale di Michelangelo Antonioni, la sofferenza interiore, piena di interrogativi sul senso della vita, di Andrej Tarkovskj e la malinconica visione del mondo di Chantal Akerman.

Grazie a questa mescolanza di atteggiamenti intellettuali, di comportamenti creativi e di diverse tensioni interiori, tutti gli autori hanno potuto esprimersi con sincerità fino a estrapolare dai luoghi attraversati dei “valori stratificati dello spazio” che un mero processo di documentazione non sarebbe mai stato in grado di identificare. Ma ciò che sorprende è come tale disarticolazione progettuale abbia alla fine prodotto un tessuto euritmico che nessun granitico indirizzo curatoriale di stampo tradizionale avrebbe mai potuto garantire.

Così, la fruizione di questo lavoro dovrà svolgersi con totale levità, come esperienza estetica pura, evitando di rintracciare significati o messaggi. Il fruitore dovrà porsi nella stessa lunghezza d’onda significante che ha caratterizzato l’opera dei cinque autori viaggiando lungo tracciati individuali che finiranno inevitabilmente per confluire in un unico sentiero estetico.

Solo così si potrà percorrere idealmente “la via che non c’è”.

© Maurizio G. De Bonis / Punto di Svista
Testo pubblicato nel libro La via che non c’è. Cinque fotografi erranti nell’Appennino bolognese

CREDITI
Libro: La via che non c’è – Cinque fotografi erranti nell’Appennino bolognese
Autori: Samuele Bianchi, Paola Binante, Alfredo Covino, Pietro D’Agostino, Orith Youdovich
A cura di: Maurizio G. De Bonis
Coordinamento del progetto: Paola Binante, Pietro D’Agostino
Pagine: 99 / Immagini: 50
Libro edito da:  Assemblea legislativa Regione Emilia Romagna, Comune di Monzuno, Punto di Svista – Cultura visuale, progetti, ricerca / Anno: 2018